Poco tempo fa mi è capitato di dover spiegare a un bambino che le montagne non hanno davvero la punta. Avete presente salire su un cono? Una volta arrivati in cima non ci si può mica stare in equilibrio, si cadrebbe subito dall’altra parte! Gli ho dovuto spiegare che la cima dei monti può essere anche piatta, e di spazio per sedersi, anche per correre, ce n’è in abbondanza. «Ma allora che cima è?». Ho cercato di spiegarglielo con la stessa dolcezza con cui mia madre l’aveva spiegato a me, chissà quanti anni prima.
Per chi lo vede con una certa frequenza, il Monviso è la montagna. Quelle che gli stanno attorno lo sostengono, lo incoronano, ma nessuna ha la sua forza di incarnare il concetto stesso di montagna grazie alla sua figura. E non sono poche le persone che ne subiscono la suggestione: non essendo incastonato al termine di una valle lunga e tortuosa, il Monviso svetta con tutta la sua mole su gran parte del Piemonte dando luce alle Langhe, il Monferrato e le colline di Torino. Basta alzare gli occhi e lui si trova lì, un punto di riferimento incrollabile che al tramonto svetta su uno sfondo rosso fuoco e nelle mattinate limpide sembra disegnato sul cielo.
L’uomo del passato si è interrogato su fenomeni che generavano in lui domande esistenziali, e ha risposto dando personalità al mare, ai monti, ai deserti. Ogni giorno il Monviso è una presenza immobile per milioni di persone, tutte quelle che ne vedono la vetta da ogni angolo del Piemonte. Anche quando non si vede, quando le nuvole ne offuscano la vista, il Monviso non è scomparso ma riposa in attesa, e qualche volta si alza lo sguardo per controllare se le nubi si siano diradate.
Rosso e luminoso al mattino, nero e circondato dal tramonto la sera, completamente bianco in inverno, ruvido e roccioso nei pochi mesi estivi: non si allontana mai e ci rassicura ogni giorno. Potrà sembrare una banalità e probabilmente lo è, ma chi nasce all’ombra del Monviso fatica ad allontanarsene perché perde un punto di riferimento geografico che non sbaglia mai.
Per cui passano gli anni, le stagioni, cambiano le passioni, e il profilo del Re di Pietra vigila su ogni momento della nostra vita, ogni volta che alziamo lo sguardo. Non pare naturale che ad un certo punto ci vogliamo avvicinare, vogliamo essere noi a conoscerlo, a toccarlo con mano? Immagino che sia un modo per renderlo materiale, tangibile, per spostarlo dall’orizzonte in cui giacciono i miti al mondo rassicurante di ciò a cui possiamo dare un nome.
Qualunque sia la ragione, l’ascesa del Monviso ha il carattere di un rito di passaggio che ogni individuo vuole affrontare e sogna, per mettersi alla prova e poter dire di aver raggiunto la vetta, di aver visto il mondo dall’alto, di essere stato al di sopra di tutto e di tutti nel proprio mondo conosciuto. Di certo non parlo di alpinisti ed esploratori ma di uomini e donne comuni, che siano o meno amanti della montagna.
È successo anche a me
È stato alcuni anni fa, in un momento che credevo cruciale e che poi ho scoperto essere il primo di infiniti altri momenti cruciali. A chi pratica la montagna come “mestiere”, o con un impegno e una dedizione tali da poterli far definire “alpinisti” questo articolo sembrerà certamente infantile, e per loro lo è di certo. Ma io sono un comune mortale, e al mio genere di essere umani mi sto rivolgendo.
Un uomo celebre, che non rispetto, una volta ha detto più o meno così: «Non è vero che la montagna ci rende persone migliori, altrimenti non sai capirebbe come mai in montagna ci sono così tanti coglioni!». Chiunque abbia scarpinato su un sentiero in salita non può che essere d’accordo, e io lo sono, pur accettando il rischio di ritrovarmi nella categoria di cui si parla…
Ciononostante sono convinto che la montagna possa insegnare molto a chi è in grado di imparare, e che sia una formidabile metafora di vita.
In fondo l’avvicinamento al Monviso nasce proprio come il desiderio di un bambino di diventare un calciatore. Sul palcoscenico del cielo il Re di Pietra offusca tutti gli altri attori e li rende l’ornamento necessario per farlo risaltare in tutta la sua maestà. L’estate è un lungo lunedì mattina di campionato al bar del paese, con i racconti delle ascensioni, dello sforzo e della soddisfazione, le foto della e dalla vetta, le parole che passando di bocca in bocca ingigantiscono le verità e rendono leggendaria una fatica molto umana. Ma ogni azione, anche quelle che non possono essere chiamate “impresa”, non fiorisce in mezzo al deserto, richiede invece un impegno commisurato all’obiettivo che ci si è posti. La luce dei riflettori, questo, lo lascia sempre fuori dalla narrazione. Nel 2017 Martin Dematteis sbriciola il record di ascesa del Monviso. Eccezionale. Nel 2007 Martin Dematteis correva sotto una nevicata alle 11 di sera perché la mattina successiva non avrebbe potuto allenarsi, io c’ero. Superuomo. Non ricordo come fosse equipaggiato, neanche lui lo ricorda.
In salita
La fatica tutti la mettiamo in conto. Mentre si percorre la valle Po in automobile il Re di Pietra troneggia dove si immagina che finisca la strada, facendosi a poco a poco più grande. Arrivati a Paesana è diventato così imponente da farci fremere. Il rito inizia a Pian del Re, sotto lo sguardo severo della cima, con le ultime luci della sera. La salita al rifugio è solitaria e ogni volta che alzi lo sguardo lui è lì. Non è più la piramide che si vede dalla valle; ben più massiccio e maestoso ma non ha perso i suoi contorni, la forma non ci fa sbagliare. La fatica non ci ha ancora sfiorati, a stento si frena l’eccitazione che vorrebbe farci accelerare il passo. Il rifugio, la cena, le chiacchiere, la notte. Insonne. Poi il buio.
La salita inizia con il buio, nel silenzio ghiacciato della notte che lascia libera solo una catena di luci sul sentiero. Decine e decine di persone seguono una strada tracciata senza vederne il prima e il dopo, fidandosi solo della breve traccia illuminata dalla propria torcia, del lume di chi le precede o dai propri ricordi. Ma alzando gli occhi ogni cosa è scomparsa. Capita che la quiete del cammino sia rotta dagli echi secchi e duri delle rocce che rotolano sulla roccia. Quel rumore ti scuote e ti impressiona, dovrebbe ricordarti che ti stai muovendo in una casa per la quale non si ricevono inviti, per cui è saggio muovere ogni passo con attenzione e rispetto.
La vetta è scomparsa. Così vicina, ormai, eppure invisibile. Non è più lì a ricordarci l’obiettivo della nostra fatica, ad allungare il respiro e ad alleviare lo spasmo dei muscoli. Non ci rendiamo conto di camminarci sopra! In montagna si può sempre tornare indietro, ma se ci fosse un momento in cui dire “ormai ci siamo, non possiamo più tornare indietro”, sarebbe proprio questo. Ormai non siamo qui per caso. La salita è iniziata, non ci sono più dubbi che siamo qui per lei, eppure lei non c’è; siamo soli con le difficoltà e i nostri dubbi. La determinazione, da sola, deve bastare a farci proseguire verso la meta che abbiamo scelto.
L’ambiente invece sembra volerci intimidire. Di idilliaco non c’è niente. Solo la roccia dura che si sviluppa in verticale, senza lasciarci abbracciare spazi aperti. Dura e ruvida, respinge ogni contatto disattento o casuale. Composta nelle forme più strane. Alte guglie sembrano essere in piedi per caso, e ci si passa accanto quasi senza respirare, chiedendosi quando crolleranno, e se la scarica sentita al buio, di notte, fosse la gemella. Roccia rossa e roccia grigia, e il sole e il vento, e la nebbia e il freddo. E una meta che non arriva mai e che non vediamo. E la nostra ostinazione.
E infine la vetta. Se apriamo gli occhi non siamo più tanto speciali. La nostra fatica non è più tanto unica.